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Pietro Greppi

Qual è in Comunicazione il rapporto fra Creatività, Tecnologia e Formazione

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Pietro Greppi
Advisor per la Comunicazione e il Marketing Etici

Come si rapportano oggi creatività e comunicazione?

Ritengo che il grande equivoco del nostro tempo, in pubblicità, sia credere troppo nella creatività. Nell’ambito della comunicazione commerciale quest’ultima è stata nel tempo eccessivamente mitizzata e trasformata in una sorta di differenziale premiante fra sedicenti creativi e le strutture in cui operano. Si tratta di una forzatura che ha creato “mostri” e continua a farlo. In qualche modo si vorrebbe raccogliere una definizione “rassicurante” e spendibile della parola creatività, ma il risultato non è così scontato.

Osservando, oggi, il panorama della comunicazione pubblicitaria dispiace osservare quanto piatto, insulso e banale sia “l’ingegno” dei creativi attuali. Accade in particolare che, alla ricerca della creatività a ogni costo, si perda di vista di parlare chiaramente del protagonista della pubblicità che non è il testimonial strapagato ma il prodotto e il nome del committente. Affiancati da abili registi che, questi sì, valorizzano il lavoro trasformando “storielle” in sequenze di film esteticamente notevoli, i creativi fanno poco più che qualche esercizio di retorica o giochi di parole e metafore. Stupisce come le imprese possano buttare via budget considerevoli in stucchevoli e stupidi esercizi di pochi secondi.

Prima che qualcuno mi accusi di disfattismo, visto che credo nell’importanza della comunicazione, dico anche che è necessario non rubare a tutti i costi la scena ai prodotti. Ricordo una frase di qualche anno fa letta in un libro americano che recitava più o meno così “la pubblicità deve spiegarmi a cosa serve quel prodotto, quali sono le sue caratteristiche tangibili, e deve spiegarmelo bene, tutto quello che dice in più è tempo e denaro sprecato”. Le aziende sono gestite da persone con nomi e cognomi che molti vorrebbero conoscere più del prodotto soprattutto quando, sempre più sprezzanti del buon gusto, dell’etica, del buon senso e del rispetto per i sentimenti altrui autorizzano, approvano e stimolano l’uso di costosi teatri di scena (location) e altrettanto costosi testimonial, e contemporaneamente osano parlare di crisi e di esuberi.

Per molti di coloro che riescono a far parlare di sé, a seguito di qualche idea, messa in scena, essere creativi pare significhi proporre lauti cachet ad attori che non ne necessitano e che, a fronte dei quali, però, direbbero qualunque cosa di un prodotto. Stesso discorso vale per la scelta che spesso ricade su sportivi di qualsiasi disciplina assoldati, per esempio, come testimonial di merendine, che tutto sono tranne che adatte a una corretta alimentazione sportiva e via dicendo fino ad arrivare alla promozione smodata di format “creativi” che invitano a giocarsi la pensione o che suggeriscono l’idea che l’alcol rende affascinanti e interessanti.

La creatività non è dato sapere cosa sia veramente. È probabilmente, anch’essa, un’invenzione di qualche pubblicitario del passato remoto che trovò un modo ingegnoso per giustificare lo stacco dell’assegno del cliente.

Spesso il creativo pubblicitario è identificato come colui che dimostra di essere dotato di fantasia e di abilità nell’uso degli strumenti tecnologici disponibili, ma questo non ha nulla a che vedere con la comunicazione. Provate a togliere il computer dalle mani di un “creativo” dell’ultima generazione, non saprebbe fare un disegno a matita.
I cosiddetti creativi, soprattutto quelli famosi, hanno sempre copiato molto. Varrebbe la pena ricordare che solo se un messaggio arriva a destinazione e solo se, una volta giunto, è decodificabile dal ricevente, allora ha senso verificare se il messaggio era o meno basato su concetti creativi e se questi si sono dimostrati efficaci allo scopo ultimo, che è la comunicazione decodificabile e decodificata. Troppo complicato? Non credo.

Certamente è più facile abdicare alla creatività non identificabile, ovunque si desideri evocarla e quale che sia, piuttosto che all’impegno di cercare modalità intelligenti per entrare in contatto con il mercato. Non vorrei sembrare fuori tema, ma qui vorrei cogliere l’opportunità per demolire un mito: la creatività non si produce, ne siamo tutti dotati e la sua evidenza è visibile solo come diversità agli occhi di coloro che hanno una creatività diversa.

Quello che manca è la capacità di essere chiari. Manca l’abitudine alla parola, al contatto con l’altro, alla prossimità. Internet, i social, i tablet e gli smartphone non fanno che ingigantire queste carenze e ammazzare quella fantasia e quel senso di freschezza intellettuale che qualcuno si ostina a chiamare creatività. Per assurdo essere diretti e semplici, in un mondo che parla per metafore e con frasi rubate, è una forma di creatività di ritorno. Se siamo abituati a cercare di capire un messaggio non diretto, che ci giunge da una produzione pubblicitaria, quando ci troviamo davanti a un messaggio diretto e chiaro rischiamo addirittura di commuoverci.

È quello che accade quando, per esempio, un Papa, che decide di chiamarsi Francesco, ci richiama alla sobrietà: messaggio arrivato immediatamente e rilanciato dalle agenzie di tutto il mondo. Una parola semplice, chiara, dimenticata e il messaggio è arrivato. È stato creativo il Papa? No, ha solo usato il buon senso da cui tutti ci siamo allontanati da tempo e i creativi per primi.

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Ultimo aggiornamento:
1 agosto 2022
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