ENTRARICERCA

Francesco Massimi
L'intrattenimento in comunicazione per un coinvolgimento unico

Senza titolo

Francesco Massimi
Maestro Collaboratore
Teatro Lirico Sperimentale «A. Belli» di Spoleto

Quale engagement in comunicazione riesce, oggi, a gratificare a pieno l’individuo e a prolungare la sua attenzione nei confronti del brand, prodotto o sevizio senza dispersività?

Il gioco, il sorriso e il sogno quali potenzialità hanno a livello comunicativo?

Secondo Woody Allen in “Io e Annie” la battuta “Io non vorrei appartenere a nessun club che avesse me fra i suoi membri”, attribuita a Groucho Marx, ha origini da un concetto di Freud. Da quando infatti il padre della psicanalisi scoprì nuove malattie per l'umanità, stabilendo che fosse più debole di quanto non si pensasse prima, si sono aperte due conseguenze: nascita di nuovi medici e di nuovi comici/umoristi. Questi ultimi hanno convertito l'”horror vacui” di molte pieghe inesplorate dell'esistenza in amabile paradossalità, nonsense, aprosdoketa, etc.

Non che l'humour non esistesse prima, ma nel nostro tempo ha preso un'altra strada. Ha esplorato scientificamente su che cosa si è disposti a ridere, con quale tempistica, con quale capacità disinibitoria, ma senz'altro, per scopi commerciali, quanto la risata può aiutare ad esorcizzare i fantasmi e le angosce che vengono altrimenti spalmati sul famoso lettino. Così la commedia dell'Arte si evolve nello slapstick, e lo slapstick nel visuale pubblicitario. E' noto che negli anni '70 il Carosello televisivo chiuse anche e soprattutto per un fenomeno di fagocitazione dell'aspetto comico, della battuta, rispetto all'esposizione del marchio (il famoso “effetto vampiro”). Certo, comprensibile; oggi, però, abbiamo strumenti più complessi per valutare la strutturazione del messaggio, non rinunciando ai vecchi mezzi usati per gran parte del secolo passato, però con l'approccio diverso secondo il quale il pubblico non è passivo recettore di una meraviglia visiva.

Si sa che oggi tutto è possibile, tutto è conosciuto, nulla stupisce; quello che si conosce, si rigetta [lo diceva già Byron col suo Don Juan, “The tree of knowledge has been pluck’d, ― all’s known.] La tecnica deve essere usata per coinvolgere in modo attivo l'individuo perché lo spirito del nostro tempo non rinuncia ad essere fortemente ontologico, anzi, fortemente “auto-ontologico” (se così si può dire); all'esistenza della parola in quanto tale, e dunque al confronto che diventa dinamico fra entità che non possono dismettere il loro istinto di autodeterminazione, non si può derogare. Il tempo nostro vive dell'etica del “faber […] fortunae suae”; le parole sono un pulsante campo di gioco, e il gioco una battaglia dove ognuno è deciso a dare il suo contributo per infondere la vita ai significanti; questo, purché vi sia uno schermo protettivo. Infatti, l'ostinazione dell'”esser-ci”, ben raccolta dal prefisso I- precedente uno smartphone, od un tablet, oggi si accompagna ad una paura dell'”esser-ci”, delle sue conseguenze; ma chiunque disponga di un tablet o di uno smartphone può segnalare la qualità di un dato ristorante a Google, perché questa possa informare un eventuale cliente, i forum telematici sono stracolmi di indicazioni su come dissipare la temperatura di un laptop con problemi di surriscaldamento.

Bisogna, forse, rivedere il concetto di “gioco”, perchè “gioco” può ben essere quello che propone Tgcom24 coll'invito a costruire il telegiornale coi contributi degli spettatori, utilizzando vere e proprie forze locali dentro la notizia dentro ad un role play [anche se gioco fu pure “fai tu il lavoro per me”, sciagurata campagna pubblicitaria di una casa costruttrice di SUV, poco tempo fa]. Questa è la parte sana del discorso, ma, per quanto sia crudo dirlo, e con tutte le riserve non tanto morali ma di misura e buonsenso, una società che organizza spedizioni in pullman ad Avetrana [spero senza rito del rosario] o che guarda i plastici di Bruno Vespa come Doll's Houses del terrore è andata, nella propria visione della partecipazione ad un gioco, ben oltre un certo limite di castigo, e bisogna pur tenerne conto.

Quella in cui viviamo è definitivamente una società opensource, una società Linux, della quale ogni individuo, purché virtuale, può e deve sentirsi costruttore a beneficio del nostro “estraneo più vicino”; il diritto-dovere dell'urna elettorale, la dittatura del sogno democratico, si manifesta attraverso il pollice insù del “mi piace”. [C'è un bellissimo testo di una giovane autrice folignate, Laura Brizi, incentrato su questa dittatura, formalmente sul tema del “reality-show”]. E' chiaro che qualsiasi forma di coinvolgimento dell'individuo, ancorché unica, va vista alla luce dell'abbattimento stesso del vettore, all'idea dell'esistenza stessa di un vettore, perché questo ostacola la relazione; ragion per cui è oggi non si parla tanto di “media”, ma di “content”.

Perché il gioco possa funzionare, inoltre, bisogna mantenere le parole “nomina nuda”, svincolate cioè dall'idea di un pensiero univoco, in un flusso continuo senza principio e fine in cui pure ci sono entità distinte, e questo delicato compromesso fa sì che lo scambio continuo di informazioni sia proficuo per la comunicazione. Riconoscere il valore estremamente ambiguo della parola ha permesso di rilevare che un marchio possa essere milioni di cose per milioni di persone. Non è possibile identificare qualitativamente il nostro tempo, non solo per ragioni d'immanenza; i primi anni '90 li possiamo ricordare forse con “l'odore delle tute indossate al posto dei vestiti, delle videocassette”, come Nanni Moretti sentiva, in “Caro Diario”, il quartiere romano di Casalpalocco (per me è l'epoca delle scritte sui display color verde-farmacia nelle stazioni ferroviarie principali, ma come dicono i Russi na fkus, na zvet, tovarisceij net, variante del de gustibus latino); e negli ultimissimi anni del secolo non si poteva andare in discoteca senza sentire contaminazioni acid-jazz, ed è anche quello segno di una opulenta decadenza, di una voglia di esserci ancora, la belle-époque travolta da quella che Beppe Grillo definì “la Terza Guerra Mondiale, quella della conoscenza”.

Quello che si vuol dire, è che non esistono, non possono più esistere segni riconoscibili, significati, non si è più al riparo da questo; quello che Carmelo Bene fece in una sera, “vomitare significanti”, è stato pienamente realizzato nell'epoca in cui il fraintendimento di un post su facebook con conseguente litigio è ormai cosa comunissima, come anche un commento su youtube “Viva Eckhardt e viva l'alcool ad una certa ora. Per tentare un saggio di cosa possa avvicinarsi ad una istanza di benessere, bisogna fare i conti con volontà e paura: per attuare un delicato compromesso fra entrambe, bisogna stabilire questo, cioè che la rete è un mare magnum di frustrazioni e sadismi gratuiti ma anche – paradossalmente – di un codice “etico” rigoroso che riguarda sicuramente due punti, che espongo senza velleità di giudizio (non è qui il luogo), ma per la cronaca:

1) “Vietato vietare”; se Giuliano Ferrara parla di “puritanesimo pedofobico”, riguardo allo scandalo Rubygate, in rete vige il “puritanesimo eterofobico”, laddove etero non ha connotazione sessuale, ma sta per qualsiasi forma di dissenso verso un sistema omogeneo (più che omologato), in questo senso “unico”, in cui “fare ciò che voglio è l'unica regola”, regola padrona sulla Rete.

2) Su Internet è presente, a larghe maglie, l'imperativo dell' “essere in pace col mondo e con gli altri”. Il profluvio di smileys con tanto di cuoricini, linguacce, sono l'equivalente del distendersi del cane a pancia insù, come per dire al suo simile “guarda, sono innocuo”. Si tratta in sostanza, di uno strascico della cultura New-age, secondo la quale si può essere al mattino taoisti, a mezzogiorno ebrei, alla sera Giovani Marmotte, per non scontentare un'istanza di sincretismo che sancisca una [talvolta dittatoriale-acritica] celebrazione della diversità. Un modo per smontare l'aggressività, che in una strategia di marketing moderna corrisponde al rovesciamento del ruolo produttore-consumatore.

In realtà il consumatore, destinato a determinare lo sviluppo del marchio, è esso stesso “produttore”, mentre il vecchio produttore diventa forte “consumatore” di input che parlano della vita dell'individuo, non di un punto percentuale. Se lo show televisivo introduce lo spettacolare nel reale, eventi come i flashmob catapultano il reale nello spettacolare. In realtà, c'è più voglia di futile oggi, che nel passato; e la voglia di futile, a ben vedere, è più radicata nelle discussioni sul disastro della Costa Concordia (pare che siano improvvisamente diventati tutti capitani di vascello), che sui tronisti di “Uomini e Donne” (volevo scendere proprio in basso); tutto questo per dire che il sogno demiurgico si confonde, ed è normale, col peccato prediletto dall'avvocato John Milton impersonato da Al Pacino.

Il terreno franoso dell' opensource mostra che non ci si può affidare ad esso con deliberata incoscienza, senza dialogo con i consumatori della rete, in questo caso, dei “prosumer”. E' come se un pianista caricasse su Youtube la sua interpretazione di un pezzo di Chopin e chiedesse a tutto il web: “cosa preferite che faccia a battuta 20? E sul levare di 840?” (E tutto quello che c'è in mezzo?). A meno di non essere suicidi (e molti utenti di Internet lo sono, per vero), la strategia di sciogliersi il cinturone durante il duello all'alba non funziona, qualcuno che non rispetti la cavalleria si trova sempre (e non sempre si trovano le lastre di Clint Eastwood attaccate al collo).

Come si può attuare dunque l'Aufhebung, il superamento delle contraddizioni nell'”unico”che pure è necessario per trovare una chiave di comunicazione? Se mi è concesso evocare ancora la cronaca di questi mesi, io chiamerei a testimonio le parole del Capitano Gregorio de Falco: “La Capitaneria è un'istituzione sana, bellissima, semplice: io sono innamorato del lavoro che faccio”. Questa frase risuona ancora, e ancora. Risuona soprattutto quel semplice, perché accanto a sana, bellissima; soprattutto perché quel semplice, che sembra lasciato cadere così da un uomo che sembra così laboriosamente scolpito nel marmo da un lungo corso di τεχνη militare, dei delicati equilibri fra le norme che non ammettono l'errore al microsecondo, è una bomba. E' un messaggio contro la ridondanza, ma che apre una miriade di possibilità, perché la nega; qualsiasi atto di distruzione è atto di creazione. Distruggere il sistema significa crearne uno nuovo, dacché deporre la volontà è impossibile, se non sublimandola in qualcosa d'altro. Stare in bilico fra il tutto ed il niente, fra la ridondanza e la nudità, riassunto in quel semplice di colui che non a caso è l'eroe dei nostri giorni, è l'assunto principale per cui il coinvolgimento, la partecipazione dell'individuo in un nuovo, sano, bellissimo sistema di comunicazione non muoia.

Nasce ad Agropoli, nel Cilento, nel 1982. Da qualche parte si stabilisce che la musica è la sua strada, e la cosa apparentemente regge. Inizia dunque gli studidi pianoforte in città, e si diploma al Conservatorio di Potenza col massimo dei voti con il M° Lucio Grimaldi, specializzandosi poi con Boris Petrushanskij ed Olga Zdorenko. Studia Composizione al Conservatorio di Napoli, e si specializza all'Accademia della Scala di Milano, poi presso l'Accademia «MaggioFormazione» di Firenze, e come Maestro Collaboratore al Teatro Lirico Sperimentale «A. Belli» di Spoleto, città che praticamente lo adotta e lo sussume entro di sé. Assistente di Federico Maria Sardelli a Firenze, si specializza in musica antica, suona alla Hochschule für Alte Musik di Trossingen (Germania) e dirige a Spoleto alcune opere del '700 in primo allestimento assoluto, da lui ritrovate ed anche ricostruite.

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Il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto è stato fondato nel 1947 da Adriano Belli, avvocato e musicologo, con il fine di avviare alla professione dell’arte lirica quei giovani dotati di particolari qualità artistiche che, compiuti gli studi di canto, non avevano ancora debuttato. Accogliendo i vincitori del Concorso di canto dello “Sperimentale” a Spoleto ed avviandoli ad un corso di due anni, vengono dati loro quegli elementi che la scuola non offre: non solo preparazione delle opere ma anche preparazione al gesto, sotto la guida dei registi e dei direttori che mettono in scena le opere stesse nella Stagione Lirica di presentazione.

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Ultimo aggiornamento:
1 agosto 2022
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